Presentazione del libro, “La terra di Piazzolla” di Felice Romano
Nola – Mia cara vecchia Piazzolla,
da che mondo è mondo ti ritrovi ancora qua, adagiata sulle prime pendenze del Monte Somma e declini lievemente verso il piano. Con il Tuo silenzio hai fatto nascere in noi un segno indelebile per quella grandezza che ammirata da qualunque parte, ci rimane quasi sempre negli occhi. Un fascino che dagli albori del mondo è arrivato direttamente ai giorni nostri e, noi che, per quel destino che regola le vicende umane, abbiamo avuto il privilegio di nascere ed abitare qui, Ti ringraziamo per essere figli naturali della Tua Terra.
In lungo e in largo, a piedi scalzi, Ti abbiamo camminato, abbiamo sentito la frescura del terreno, l’aridità della ruvida rena, l’ombra delle fronde, gustato il sapore della frutta, l’aroma dei tuoi vini, l’odore del fieno, respirato l’aria fresca e fina che spira da sopra il monte. Ieri, settant’anni fa, la vita era diversa, non esistevano recinti fra proprietà e non avevamo ricchezze da accumulare o da preservare, tranne il lavoro. Eravamo in pochi, ci volevamo bene e usavamo chiamare tutte o quasi tutte le persone anziane della comunità, col termine assai ampio di zio o zia. Di conseguenza ognuno di noi aveva un numero abbastanza grande di zii e zie, anche se non esisteva, tra noi, neanche una lontanissima parentela. I giorni trascorrevano nella loro piacevole lentezza, ci svegliavamo al canto del gallo e il primo rumore avvertito era lo scalpiccio continuo e prolungato degli zoccoli del cavallo del rigattiere che passava col suo carico diretto al mercato a vendere la sua mercanzia. I rintocchi delle campane di mezzogiorno e dell’Ave Maria scandivano l’ora del pranzo e della cena, mentre i giorni della settimana erano solitamente cadenzati sulle voce stentorea dei venditori ambulanti, con la quale passando, a piedi o col carrettino, reclamizzavano il loro carico di merce, prorompendo dall’intimo dell’animo melodiose e colorite costruzioni verbali. Ogni ora ed ogni giorno aveva l’ambulante di riferimento, per cui riconoscevamo con precisione, il giorno e l’ora dalle voci d’ ‘o “sapunaro”, ‘o “congiatiane”, ‘o “’mbrellaro”, “l’ammolafuÓrfece”, ‘a “‘mpagliasegge”, ‘o “pannazzaro”, ‘o “’mbusematore”, mentre le antiche “puteche”, ci rifornivano dei più comuni generi alimentari e del mangime per gli animali domestici.
Nelle domeniche estive, a parte l’obbligo religioso da assolvere, si aspettava con ansia il suono del fischietto del gelataio, tal “Zi Nicola”, avanzare col suo carrettino a pedali a gridare: gelati. Noi bambini interrompendo il gioco lo circondavamo desiderosi di spendere quella moneta da dieci lire, per una crema di gelato di sapore ed aroma gradevole, spalmata in quelle due cialde. La vita scorreva tranquilla, interrotta da visite di parenti venuti dai centri abitati in campagna, alla ricerca di un po’ di frescura e a fare due chiacchiere, all’ombra dei pergolati, di fronte a un “arciulo” di vino, nel quale era usanza immergervi pacche di percòca. Nella versione invernale, il quadro raffigurava la famiglia riunita al focolare, l’arciulo sulla mensola e gli ospiti, onorati con “nu bicchierino ‘e rusolio, na presa d’annese o ’e ccerase int’ ‘o spireto”. Solo in particolari ricorrenze, correvamo ad assieparci al muretto dell’aia di qualche masseria, attratti da una piccola festa, allietata dal suono di una fisarmonica. Piselli, fave e ciliegie preannunciavano l’entrata della bella stagione, mentre la vendemmia di ottobre e il primo gregge di pecore in transumanza dall’Irpinia, erano i segnali premonitori dell’inverno in arrivo. I mansueti quadrupedi, si facevano volere bene per il latte, trasformato dai pecorai in caciotte e morbide ricotte. Infinitamente, golose erano le fritture di cacio e uova, non meno succulenti, maccheroni e ricotta e le altre bontà accompagnate da quei latticini, dalle quali separarsi era una sofferenza. I prodotti caseari non esaurivano l’utilità delle greggi al pascolo. Queste, sostando per alcune notti nei tratti di terra, tra lo stallatico prodotto, idoneo fertilizzante dei terreni, depositavano i semi della “borsa del pastore”, volgarmente detta “cansella”, le cui foglie, si utilizzavano in cucina, per ravvivare insalate rustiche o cotte con i fagioli, apprezzabili per bontà, leggerezza e virtù terapeutiche.
Per il pane, in ogni famiglia vigeva il metodo autarchico di produrlo nel proprio forno in mattoni e ad ogni fatta, era usanza scambiarne, vicendevolmente, un pezzo caldo, con i vicini. Gli stessi che, volentieri, accorrevano a dare una mano in occasione della macellazione del maiale, acquistando il diritto naturale ad ottenere un piatto di carne del generoso suino o di partecipare alla tavolata del “puorco”, per l’occasione, animata da un rumoroso conversare, sorretto da abbondanti libagioni. Queste due circostanze, nella nostra usanza contadina, assumevano un forte valore simbolico ed erano momenti di sentita aggregazione sociale. Si respirava aria pura, priva di onde magnetiche e i rapporti umani erano semplici e sinceri. Non sapevamo, allora, che una felicità così grande costasse così poco. Eppure, mia cara vecchia Piazzolla, nella Tua crescita dirompente, in questi ultimi anni, registri un impoverimento di quella campagna felice a misura d’uomo, in cui i contatti umani, vissuti gomito a gomito, erano molto più gratificanti degli odierni, vissuti a misura d’auto, d’autotreni e telefonini. Spesso le cronache si sono occupate di Te evidenziando gli aspetti più amari e tragici dei nemici della Patria, coi quali, noi, non avremmo mai condiviso una cellula del nostro cervello, trascurando tutto quanto c’è di buono nella Tua gente. E di fronte a questo quadro in cui venivi dipinta come il brutto anatroccolo, ravvisavi l’inerzia dei travicelli di turno ed il rifiuto di Cesare e del Senato, a soccorrerti con uno stagno, per farTi rendere consapevole che eri un cigno. Nel tempo, Imperatori e Senato, hanno inteso rimarcare, l’insolente supremazia della cittadinanza capitolina, rispetto agli abitanti della Suburra. Peccato. E così, tra insulti, inerzie di travicelli e mancate solidarietà di onnipotenti, là dove c’era l’erba, ora c’è una colata di asfalto e cemento e quella casa in mezzo al verde, è diventata una dimora per elefanti, in modo da rendere la borgata atipica, per struttura urbanistica, per costituzione politica, per organizzazione sociale, tenendo conto che all’origine di questo guazzabuglio, non mancano, complicità di tribuni ed iniziative di centurioni. Per questo motivo, non sei più il luogo ideale dove poter immaginare di vivere la favola della vita, dato che, per dar credito a teatranti, dimenticasTi la Tua origine, abbandonando presto la Tua idea, per rincorrere chi, per tronfie apparizioni, Ti sedusse con il suo chiacchiericcio, senza prospettarTi un’idea.
Consapevole e, nello stesso tempo, addolorato, mi sono permesso di intitolarTi un libro. Ho rivangato le Tue radici, per irrorarle e tenerle vive, in modo da ritrovare quel filo ideale che ci congiunge al passato e non lasciar andar via, ad uno ad uno, senza scopo, i tuoi giorni futuri. Parla di chi per prima Ti abitò, per trasmettere, a chi vorrà leggerlo, un po’ di amore e rispetto per la Tua, tanto maltrattata, Terra. Non so perché hai voluto affidare, proprio a me, il compito di sottrarre le Tue memorie di carta all’oblio e non so, se mai apprezzerai il lavoro del Tuo amanuense che, senza retorica, ha una residenza di famiglia, talmente, radicata, da non poterla mai eludere. Scribente che ha sempre creduto nella lealtà all’ambiente e nella tradizione della sua Terra, dove, per insegnamento, ha avuto come primo riferimento, il rispetto e la considerazione per i conterranei. Così Ti lascio la mia speranza di continuare a risiederTi, come un tempo, nella convinzione che, lealtà, rispetto e tradizioni, non siano soltanto espressioni di circostanza. Ti saluto con lealtà e naturalmente, con rispetto.
di felice romano