Papa: rinnoviamo il grido di libertà dell’America ispanofona
Un indio con sulle spalle il poncho rosso e bianco ha da poco finito di leggere nella antica lingua “quechua” la lettera di san Paolo a Timoteo, quando il Papa, dopo il Vangelo proclamato in spagnolo, disegna il suo sogno di liberazione e fraternità per tutti i popoli. Sta celebrando nel Parco del Bicentenario di Quito, Paese relativamente piccolo e in certa misura periferico del Sud America, e ricorda quel “grido di indipendenza” di 200 anni fa della “America ispanofona”, nato “dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere spremuti e saccheggiati, soggetti alle convenienze dei potenti”.
Accanto a questo “grido”, il primo papa latinoamericano della storia della Chiesa dice di figurarsi come un “grido” anche il “sussurro di Gesù nell’ultima cena”: “Padre, che siamo una cosa sola, perché il mondo creda”. “Vorrei – dice – che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una concordia che nasca ‘dalla gioia del Vangelo’, che ‘riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”.
Il grido di libertà che proruppe in America latina poco più di 200 anni fa, ebbe “convinzione”, “forza”, e “fu decisivo – commenta ancora papa Bergoglio – quando lasciò da parte personalismi, aspirazione a una unica autorità, mancanza di comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma non per questo antagoniste”. Un modello che il Papa sembra indicare anche per immaginare oggi processi di liberazione dei popoli, dalla povertà, dalle guerre, dalla violenza. E’ a questo punto che papa Francesco sottolinea come il Vangelo può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie”.
E prima di concludere la amplissima meditazione – in cui riflette anche sul “proselitismo, che è una caricatura della evangelizzazione”, i rischi di farsi una Chiesa di eletti, la tentazione di calpestarsi gli uni gli altri per “potere, prestigio, piacere o sicurezza economica, a costo dei più poveri, dei più indifesi, di chi non perde la sua dignità anche se gliela calpestano ogni giorno” – il Papa spiega che “questa è la nostra rivoluzione, perché la fede è sempre rivoluzionaria, questo è il nostro più profondo e costante grido”.
Tra il popolo c’è anche il presidente dell’Ecuador Rafael Correa. Quando il Papa è giunto sulla papamobile nel Parco che può contenere anche un milione e mezzo di persone, lo ha accolto una pioggia di petali di fiori colorati, e di fiori colorati è anche lo stemma papale composto sotto l’altare. Prima della conclusione, l’arcivescovo di Quito, mons. Fausto Gabriel Travez Travez, conferma l’impegno della Chiesa dell’Ecuador per rinnovare “la gioia del Vangelo”. Alla fine il Papa improvvisa un saluto: “che la Chiesa – auspica – sia una, un luogo dove siamo fratelli, la Chiesa è una casa di fratelli”, è la sua raccomandazione. La grande messa, con i canti andini e le preghiere per i più piccoli e dimenticati, finisce per essere una sorta di manifestazione della teologia del popolo in cui crede papa Francesco, e un appuntamento significativo di questo viaggio in Sud America.