Nola, intervista etnografica a Vittorio Avella: ecco come è cambiata la Festa dei Gigli nel tempo
Nola – Nola, la mia terra natia, città dal patrimonio artistico e culturale fuori dal comune data la sua storia caratterizzata da tradizioni molto antiche, sinonimo di civiltà per l’intera collettività nazionale che in esse riconoscono la propria identità, in particolar modo nella Festa dei Gigli attraverso la quale esprimono la fede e la passione verso il Santo Paolino, vescovo di questa terra nel V secolo a. C.
La celebrazione del Santo con le macchine lignee allestite con competenza e sapienza si perpetua ogni anno nel tempo, dal suo ritorno avvenuto nel 410 a.C. ad oggi, costituendo un momento atteso e magico per il popolo nolano e dintorni.
Il particolare legame con il mio territorio d’origine, nonché le mie radici familiari gigliantie l’amore per la Festa eterna, che ho seguito fin dalla tenera età, mi hanno portato ad approfondire a livello antropologico e culturale uno dei più importanti beni immateriali tutelati dall’Unesco, nell’ambito della rete delle grandi macchine a spalla italiane.
Dirigere un intervista etnografica per me ha rappresentato un’ esperienza di arricchimento sul piano umano e di formazione personale che spero possa giovare a tanti miei colleghi, dei quali avrei piacere di solleticare la loro curiosità, mettendoli in contatto con una delle tante meraviglie culturali di cui dispone la mia città; sia ai miei coetanei nolani, che a mio parere hanno perso di vista il vero senso della festa che non è fatto solo di spettacolarizzazione e competizione tra le diverse “paranze”, bensì di una cultura profonda e ben radicata nei secoli che si rinnova e rigenera nel momento stesso in cui la festa termina.
Il mio intento è quello di trasmettere un messaggio profondo e pregnante sulla cultura, sulla ciclicità della storia e della vita stessa, di una fede e una passione che mai si spegne nonostante il mutare del tempo e degli eventi.
Per indagare minuziosamente i molteplici fattori di cui si compone la festa, seguire i flussi di significato che i diversi protagonisti danno alle azioni che svolgono, interpretare ogni singola prospettiva dalla quale ci si può porre per osservarla, che sia essa di carattere religioso, economico, amministrativo, relazionale, territoriale, sociale e così via, penso non basterebbe dedicare una vita intera alla ricerca e agli studi, per questo motivo ho cercato di focalizzare il mio interesse su uno degli aspetti più caratterizzanti : gli obelischi lignei e il loro rivestimento in cartapesta.
Per parlare di tale aspetto, dopo una accurata ricerca e lettura delle fonti più importanti, ho deciso di raccogliere attraverso una mia personale intervista, una delle testimonianze orali maggiormente impegnate nella grande tradizione artistica nolana, ossia il maestro Vittorio Avella progettista di diversi rivestimenti degli obelischi lignei, caratterizzato da una spiccata sensibilità per gli aspetti artistici legati al rituale della Festa dei Gigli, in particolare alla lavorazione della cartapesta.
1 L’intervista etnografica: partiamo dal capire cosa è
Il mio elaborato e la mia intervista etnografica all’artista Vittorio Avella sono frutto di un compito assegnatomi dopo aver seguito personalmente un corso di Antropologia culturale presso l’Università Sapienza di Roma tenuto dalla antropologa Prof. Alessandra Broccolini, che pone come obiettivo la restituzione dei contenuti appresi durante le lezioni.
Di fronte alla vastissima scelta di tematiche e contesti culturali da poter analizzare come oggetto di ricerca antropologica, nonché data la possibilità di trattare tali argomenti attraverso modalità differenti, ho immediatamente avuto ben chiara l’intenzione di cimentarmi nell’intervista etnografica in quanto la ritengo fortemente caratterizzante la materia in questione, e personale poiché rappresenta un momento che mette alla prova la propria sensibilità, capacità di ascolto e gestione delle situazioni, nonché tiene conto del retroterra culturale e soggettivo sia dell’intervistatore sia del testimone. Nel mio caso specifico mi sono trovata a interfacciarmi con una persona che condivideva la stessa visione socio-culturale, in quanto anche il maestro Vittorio Avella è nato e vive attualmente a Nola.
Calarmi nei panni di un’antropologa che sceglie e intervista il suo interlocutore privilegiato, riguardo una tematica culturalmente orientata quale la strutturazione e progettazione artistica di un giglio, è stato per me come per tanti altri antropologi affermati un “evento irripetibile”, motivo di novità, di rottura con i metodi precedentemente acquisiti e adottati nella creazione di una fonte di tipo qualitativa, spunto per vivere un’esperienza di arricchimento personale, ampliando il mio bagaglio culturale.
Prima di presentare i nodi cruciali che hanno guidato la mia ricerca penso sia necessario innanzitutto esplicitare cosa sia un’intervista in antropologia.
A tal proposito esemplificativa sembra essere l’affermazione di James Fernandez che associa tale pratica all’ascolto delle “voci” degli altri. “Per me la professione dell’antropologo è associata fondamentalmente all’inclinazione a “sentire le voci”. Un momento importante della nostra vocazione consiste nell’ “ascoltare le voci” e i nostri metodi sono solo i migliori procedimenti che consentono di percepire le voci, rappresentare le voci, tradurre le voci…”
Essa infatti rientra nell’ambito delle fonti orali in quanto è un evento comunicativo caratterizzato dalla sollecitazione del ricercatore nei confronti del testimone riguardo i contenuti della comunicazione, impregnata di contenuti culturali che, se registrata, diventa documento proprio come nel nostro caso.
È uno strumento che, integrato con l’osservazione partecipante, indaga valori, opinioni, memorie, giudizi, saperi, forme di autorappresentazione, e tutto ciò che di un contesto culturale non è indagabile attraverso la sola osservazione.
La mia stessa esperienza ha dimostrato che, nonostante sia stata a stretto contatto con la comunità nolana e ne abbia osservato da una prospettiva sostanzialmente interna le sue forme di vita sociale e culturale dalla mia nascita, tramite l’intervista svolta attraverso uno sguardo antropologico ho avuto modo di entrare in contatto con elementi della Festa precedentemente poco conosciuti o dati per scontato, quando invece lungi dall’essere scontati, data la forte valenza simbolica e culturale.
Molti a questo punto si chiederanno perché in antropologia l’intervista è spesso seguita dall’aggettivo “etnografica”, a cosa fa riferimento questo attributo, quale valenza assegna a questa modalità di ricerca.
Frequentando il corso ho avuto modo di apprendere che per “etnografia” si fa riferimento ad un metodo proprio degli antropologi che trasmettono le conoscenze acquisite sulla cultura attraverso una dettagliata descrizione della cultura della comunità osservata ed esaminata precedentemente dallo stesso ricercatore.
Essa per buona parte del Novecento era concepita dall’ approccio scientifico di tipo “positivista” come un resoconto scientifico e oggettivo che poneva al centro solo l’oggetto-cultura studiato, ma a partire dagli anni Settanta/Ottanta in poi con la “svolta riflessiva” tiene conto della conoscenza interculturale e l’interpretazione reciproca dell’osservatore tanto quanto l’osservato.
Come afferma l’antropologa siciliana Katia Ballacchino durante un seminario, parlare di ricerca etnografica significa seguire i flussi di significato che i protagonisti della festa danno alle azioni che svolgono.
L’ antropologa ha svolto il suo dottorato di ricerca in etnologia ed etnoantropologia per ben 9 anni sul territorio nolano, restituendo a noi cittadini una monografia intitolata “Etnografia di una passione” e avviando un percorso di consapevolezza e valorizzazione patrimoniale e culturale di uno dei più importanti beni immateriali tutelati dall’Unesco, nell’ambito della rete delle grandi macchine a spalla italiane.
Ha prodotto un resoconto approfondito e accurato della comunità nolana e delle sue forme di vita sociale e culturale, a seguito di un lungo periodo di ricerca e di osservazione condotto presso quel gruppo, tanto da essere considerata “nolana e gigliante di adozione”dato che ha frequentato assiduamente Nola e gli ambienti della festa anche dopo la fine del suo dottorato, maturando una conoscenza più che approfondita.
La passione che l’ antropologa Ballacchino ha sviluppato nel tempo della sua ricerca che si è tramutata in una storia di innamoramento per la festa, mi è stata enormemente d’esempio, nonché motivo d’orgoglio per la città natia e la festa, tanto è che ho deciso di seguire le sue orme e far fruttare anche il mio di amore nei confronti della Festa, decidendo di approfondire uno dei suoi aspetti caratterizzanti anziché scegliere altre tematiche culturali nei cui confronti nutro grande curiosità, ma non ne sono implicata personalmente.
Attraverso questo elaborato che è frutto di uno studio meticoloso che mi è servito per adottare una prospettiva antropologica che potesse farmi interpretare il rituale della mia festa in un’altra ottica e non solo come momento di aggregazione o baldoria tipica dell’età adolescenziale, ma che soprattutto orientasse in modo corretto la mia intervista al maestro Vittorio Avella, ho voluto trasmettere quanta importanza, valore e attenzione nutro nei confronti della tradizione popolare della mia terra.
A mio vantaggio hanno giocato sicuramente le mie origini e la mia personale osservazione della festa, delle sue componenti, delle sue dinamiche, dei suoi attori, del suo valore fin da quando ero piccola e questo mi ha consentito di avere e non acquisire una prospettiva interna perché come afferma Lello Mazzacane
“Per quanti sforzi si possano fare, adottando una qualsivoglia chiave narrativa e qualunque tipo di prosa, non si riesce a restituire la festa di Nola nella sua componente emotiva. La si descrive nei suoi tratti esteriori, nella sua forma organizzativa, negli aspetti economici, ma la somma di tutte queste indicazioni non fa la festa, non ne rende ragione. Si tocca con mano, se mai ve ne fosse stato bisogno, quello che ogni buon antropologo dovrebbe conoscere bene: l’inadeguatezza del resoconto scritto, l’insufficienza della trasposizione di una festa nel suo racconto”.
La stessa Ballacchino, essendo siciliana di origini e non essendo mai venuta a contatto diretto con la festa prima del suo dottorato racconta nella prima parte del suo libro, le sue difficoltà iniziali nell’impostare il lavoro, i primi contatti, le scelte di metodo per lavorare sul campo, come quella di avvicinarsi e approfondire lo studio delle dinamiche interne e intorno a una delle paranze, la FT, che è diventata la “lente di ingrandimento” di tutti gli aspetti della Festa.
Tale lente non è da considerare “deformante” cioè intesa come assunzione di un punto di vista di parte, ma una base che a partire dalla conoscenza profonda di una parte, riesce a fare luce sul tutto.
L’immagine che a molti viene in mente pensando al lavoro operoso dell’antropologa è quella della donna “gigliante”.
Con la videocamera sempre presente e accesa a riprendere, con il suo sguardo ormai esperto, i momenti più intensi della Festa e non solo. In questo modo lei ha sempre dichiarato apertamente e onestamente il suo ruolo e la motivazione della sua presenza nei contesti festivi, e allo stesso tempo, senza che neanche ce ne rendessimo conto, mostrava di darci sempre valore, attenzione e importanza.
Chiunque abbia avuto modo di darle testimonianza della nostra Festa, ha cercato in qualche modo di “insegnarle” qualcosa, dai comandi dei gigli, ai termini tecnici, dai vicoletti del centro storico per orientarsi nella folla, al “mezzo passo” e lei stessa ha dichiarato che a Nola ha imparato a fare il suo lavoro.
Ella restituisce a tutti noi l’immagine della Festa dei Gigli non solo attraverso i suoi occhi di antropologa, ma anche attraverso le mille prospettive che si delineano attraverso le testimonianze di tutte le persone ascoltate in questi anni, tanto da poter parlare di etnografia polifonica , nella quale la realtà appare come prodotto di una negoziazione tra più voci e non monolitica dove viene riprodotta solo la voce del ricercatore imponendo una certa autorità rispetto gli interlocutori.
Nel mio elaborato ho voluto fortemente riportare l’esperienza dell’antropologa, per far capire e trasmettere come, partendo da una esperienza particolare, a livello generale, quindi riguardo tutti gli antropologi che si imbattono in questa modalità, la ricerca sul campo in antropologia culturale non è semplice ed è soggetta ad una minuziosa progettazione metodologica, lungi dall’essere casuale.
Questa infatti inizia con la definizione del progetto con la scelta di un argomento di ricerca e la preparazione del lavoro vero e proprio attraverso la richiesta di un finanziamento, l’ottenimento dell’autorizzazione da parte del territorio e della comunità dove si conduce l’osservazione partecipante, disamina preventiva dell’oggetto di studio nel suo contesto culturale, alla scelta del sito e di una propria sistemazione al suo interno, alla costruzione di una relazione etnografica basata sulla fiducia tra il ricercatore e la popolazione che diventa oggetto di studio tenendo conto del consenso informato , principio deontologico che assolutamente non può essere violato, alle tecniche e agli approcci diversi che possono essere adottati in vista della finale documentazione della cultura che si sta analizzando e della sua restituzione alla comunità.
L’ultimo appunto che ci tengo a precisare prima di passare alla mia esperienza personale riguardo la l’intervista etnografica è che nel caso della Festa Dei Gigli parliamo di una etnografia multisituata in quanto, per effetto della globalizzazione e dei mezzi di comunicazione di massa, va oltre al territorio nolano. Numerose sono state le volte in cui è avvenuta una dislocazione migratoria della festa in altri luoghi, tanto da farle prendere l’appellativo di “festa migrante”: dai vari paesi della Campania in cui si costruiscono gigli, alla Festa realizzata a Williamsburg, distretto di Brooklyn, da parte della comunità italo americana residente a New York, di cui parla la stessa Ballacchino in un documentario e nella sua etnografia .
2 La mia esperienza personale: la preparazione della mia prima intervista etnografica
La mia esperienza da “antropologa” inizia proprio con l’assegnazione per i frequentanti, da parte della mia docente di corso, di un elaborato che ha lo scopo e l’obiettivo di restituzione di quanto appreso durante le lezioni.
Ci tengo a sottolineare che tale compito per me non ha significato principalmente l’ottenimento di un buon voto o un dovere da assolvere obbligatoriamente, bensì una grande opportunità per dimostrare, in primis a me stessa, quanto l’ottica antropologica abbia pervaso e impregnato il mio approccio alla realtà, agli eventi e situazioni all’interno di contesti socio culturali definiti, ma soprattutto motivo per parlare delle mie origini, delle mie radici e della comunità nolana con la sua Festa unica e caratterizzante.
La scelta della tematica e della modalità con la quale affrontarla derivano da un obiettivo ben preciso: approfondire attraverso una prospettiva antropologica un oggetto di studio culturalmente orientato che possa giovare sia me, attraverso l’arricchimento del mio bagaglio di conoscenze, sia i lettori di questo mio elaborato, solleticando in loro la curiosità nei confronti del tema argomentato e dell’antropologia culturale, con la speranza che tale disciplina possa affascinarli tanto quanto ha affascinato me.
Data la mia esigenza di personalizzare al massimo tutto ciò che faccio e sono chiamata a fare, ho subito scelto l’intervista etnografica per affrontare e restituire la documentazione della mia ricerca, in quanto credo che sia la modalità più distintiva della materia in questione e dalla forte componente soggettiva, data la presa in considerazione delle proprie abilità a livello di sensibilità, di ascolto, di controllo e guida della comunicazione e del retroterra culturale sia mio, che dell’intervistato.
Inoltre ho subito escluso la possibilità di poter svolgere una ricerca riguardo una pratica culturale in cui non ero implicata direttamente o laddove non avrei potuto fare esperienza dell’osservazione partecipante, date le tempistiche limitate.
Le mie origini hanno giocato un ruolo significativo e vantaggioso per dare risposta a tali necessità, data la predisposizione di un occhio interno e altamente partecipante ad un rituale culturale e di un’arte popolare, quale quella relativa alla Festa dei Gigli , che si perpetua ogni anno nel tempo e concretizza la propria evoluzione nella contemporaneità andando di pari passo con l’evoluzione della cultura umana, nonché patrimonio immateriale dell’umanità riconosciuto dal 2014 dall’Unesco
Posso affermare che sin dalla mia nascita, da 19 anni a questa parte ho avuto modo di osservare direttamente le dinamiche della Festa arrivando ad una conoscenza e comprensione incontaminata dei fatti sociali e culturali inerenti ad essa.
Chi è nato e cresciuto a Nola porta nel cuore i ricordi delle Feste dei Gigli vissute durante l’infanzia. Da bambina percepivo la Festa allo stesso modo di come percepisco una festività segnata sul calendario in rosso. I miei genitori mi hanno educata alla festa raccontandomi la “favola” di San Paolino e l’origine dei Gigli, a casa si ascoltano e cantano, in particolar modo con il mio papà , le canzoni dei Gigli.
Mi hanno insegnato i riti, il cerimoniale e le scadenze dell’anno nolano, come l’uscita delle “bandiere” in autunno, le questue” in primavera; i nomi, quelli delle corporazioni, i comandi e i gesti dei capiparanza e i movimenti dei cullatori . Ho visto nascere i Gigli nel momento della loro costruzione, vestizione e ballata della domenica che alternavo dalla partecipazione in strada alla vista dal balcone di casa mia, posto lungo una delle tappe del percorso giglistico, fino all’abbattimento di questi a chiusura dei festeggiamenti.
Mi divertivo ad arrampicarmi con i miei amici sulla base dei gigli o a costruire con mio fratello alcuni modellini per gioco così come sempre per gioco l’ho sostenuto quando da piccolo partecipava al Giglio boys”,una festa dedicata esclusivamente ai bambini frutto di una tradizione importata dall’America: una delle prime domeniche di giugno un vero mini- giglio, che compie un suo percorso è portato da cullatori-bambini con tanto di maglia della paranza e asciugamano, viene comandato da un capoparanza-bambino con fischietto e microfono, coadiuvato dai mini-caporali. Le bambine con la maglia del comitato partecipano festanti precedendo o seguendo il giglio di soli dieci metri..
Dato il mio status da osservatrice attiva e partecipante non ho riscontrato difficoltà nel presentare all’interno della mia intervista etnografica una “descrizione densa” , cioè “interpretativa” che permette di arrivare alla trama dei significati pubblici che si creano nell’interazione fra gli attori implicati.
Particolarmente impegnativo è stato delimitare un oggetto di ricerca specifico all’interno di una festa popolare, quale quella dei Gigli, che coinvolge tutte le componenti della società e dà forma a tantissimi aspetti della nostra vita di tutti i giorni, a partire dal linguaggio, dalla musica, all’arredamento delle case, alle caratteristiche del corpo di tanti uomini nolani e così via ma che soprattutto plasma la quotidianità in maniera pervasiva, attraverso l’inserimento dei diversi attori nella sfera lavorativa, in quella economica, in quella politica, in quella sentimentale, etc.
Già partendo dal concetto di “festa popolare” ho potuto riscontrare che esso porta in sé molti e importanti significati dal più semplice inerente a quello del riposo, della pausa dal lavoro e o momento di socialità e aggregazione, al grande valore culturale insito in essa, intendendo per cultura l’unità delle espressioni e delle esperienze umane.
La festa è sovente legata all’esercizio del sacro, e quindi al culto, al rito, alla devozione religiosa. La ritualità e la liturgia hanno l’analoga funzione evocativa e rappresentativa del simbolo in quanto tutta la realtà ha un’essenza simbolica.
Per tutti questi motivi, il concetto e le modalità della festa tendono a essere perenni, collegabili a distanze di tempo e di luogo, riconoscibili nonostante l’avvicendarsi dei popoli.
L’insieme delle tradizioni, delle usanze, delle consuetudini collegate alle Feste è un preziosissimo patrimonio umano, culturale, spirituale che deve essere rispettato, conservato e tramandato con ogni cura, difendendolo dai pericoli dell’epoca moderna quali l’allontanamento dalla natura, la massificazione del vivere, l’appiattimento della cultura, l’abbrutimento imposto dalle esigenze mercantili e pragmatiche, l’agghiacciante individualismo e il feroce egoismo indotto dalle società moderne, e il rifiuto della fede religiosa.
Nel nostro caso ci troviamo di fronte a una “Festa eterna” non solo perché come siamo soliti dire, “tann nasce quann more”, dato che si dà luogo all’assegnazione dei Gigli per l’anno successivo durante lo svolgersi dei festeggiamenti, ma soprattutto perché cambia e si rinnova con il tempo, per cui è sempre moderna, a dispetto dei nostalgici ricordi delle feste passate, che in tanti rimpiangono.
Come afferma l’antropologa Ballacchino :«I Gigli si reinventano costantemente dal di dentro secondo un processo che li rende sempre “contemporanei” e soprattutto sempre più partecipati dalle giovani generazioni.
A tal proposito ho deciso di approfondire l’evoluzione del simbolo, il Giglio, durante la sua strutturazione e progettazione artistica, in quanto testimonia in modo molto palese l’influenza delle innovazioni e dei mutamenti.
Individuato l’oggetto della mia ricerca, è nata la necessità di trovare un testimone privilegiato, cioè esperto in materia dal quale avrei potuto ottenere uno scambio interculturale e tecnico. Dopo un’attenta ricerca nella biblioteca cittadina e il confronto con alcuni giornalisti nolani, il mio interesse l’ho dirottato sul maestro Vittorio Avella, nolano d’origine e artista noto per il suo interesse e operato, riconosciuto non solo in Italia ma anche sul piano internazionale.
Il maestro è stato progettista di diversi rivestimenti degli obelischi lignei, favorendo la contaminazione di stili e l’accostamento all’ arte moderna.
Ha sempre mostrato grande sensibilità per gli aspetti artistici legati al rituale della Festa dei Gigli, in particolare alla lavorazione della cartapesta, tanto da essere il presidente di un’associazione di cartapestai del territorio, da lui organizzata nonché promotore del progetto del Museo della Cartapesta, che doveva essere un punto di riferimento per la promozione della Festa e delle storiche botteghe artigianali agli inizi degli anni 2000.
Da sottolineare anche il fondamentale contributo del maestro Avella nel percorso di internalizzazione della Festa dei Gigli con le manifestazioni svoltesi a Santa Maria da Feira, Lisbona,Valencia.(2005-2006-2007) tappe che hanno costituito elementi importanti per il riconoscimento della Festa quale bene immateriale tutelato dall’UNESCO nell’ ambito della Rete delle Grandi Macchine a Spalla Italiane. Ancora Avella ha sapientemente inserito i cartapestai nolani negli allestimenti delle ultime edizioni della Piedigrotta , il nome e l’operato del maestro è molto riecheggiante all’interno della comunità nolana, eppure non mi si era mai presentata prima l’occasione di conoscerlo personalmente.
Grazie ad un amico di mio padre nonché noto giornalista del territorio nolano, Antonio D’Ascoli, si è creata l’opportunità di intervistare il maestro presso il suo studio. Inutile sottolineare che ho appreso la notizia con grande emozione e contentezza.
Una settimana prima dell’intervista mi sono ampiamente documentata attraverso Internet e diversi libri, come gli annuari, diverse monografie e articoli di cui dispongo a casa, dal momento che la mia famiglia è una veterana della Festa e della raccolta di fonti scritte a riguardo.
Successivamente ho stilato una serie di domande aperte che avrei sottoposto al maestro durante il colloquio per far si che potessi orientare in modo preciso e conciso la mia intervista, senza incorrere in improvvisazioni ma neanche ad eccessivo rigorismo che non avrebbe lasciato spazio al mio interlocutore.
Le domande da porre al maestro Vittorio Avella, si ponevano l’obiettivo di esplorare innanzitutto il suo legame ed esperienza personale con la festa, il suo ruolo nonché contributo che apporta e ha apportato nel corso del tempo da buon nolano ad essa, per poi passare agli elementi tecnici e le fasi operative che portano alla progettazione e direzione artistica dell’allestimento strutturale e decorativo del giglio nelle botteghe nolane.
Dopo aver stilato una lista degli aspetti tecnici da indagare, se le tempistiche l’avessero permesso, gli avrei sollecitato altre questioni riguardo i contesti altri in cui la nostra festa è “migrata”, dalle varie occasioni presentatesi all’interno del territorio nazionale come Giffoni, Brescello, Roma o internazionali come in Portogallo e quella in Spagna alla Festa realizzata a Williamsburg, distretto di Brooklyn, da parte della comunità italoamericana residente a New York hanno influenzato la progettazione rivestimentale degli obelischi, se ci fosse stata una contaminazione di stili, cosa si stesse facendo nel settore degli studi relativi alle attività artigianali negli ultimi anni, data la sensazione di dimenticanza e sottovalutazione verso queste. Inoltre, mi premeva molto conoscere anche il punto di vista dell’intervistato riguardo un altro tema molto sentito nella mia comunità di appartenenza cioè come sarebbe possibile secondo il maestro, conciliare la modernità con una tradizione ultra millenaria come la nostra e se le manovalanze contemporanee hanno molto da invidiare a quelle del passato.
3 Il giorno dell’intervista etnografica al maestro Vittorio Avella
Il giorno 4 gennaio 2022 verso le ore 10:00 mi sono recata allo studio del maestro Vittorio Avella situato a Nola, in Piazza Geremia Trinchese accompagnata dal giornalista del territorio Antonio D’Ascoli, presente durante tutto il corso dell’intervista.
Trepida di indossare i “panni da antropologa” nella concretezza e conoscere il maestro nonché il suo spazio privato che si è rivelato un luogo ottimale per il nostro colloquio in quanto spazio dedito e silenzioso, privo di altre presenze che avrebbero potuto creare distrazioni o interruzioni.
Non nascondo che nei giorni addietro il fatto che il setting non dipendesse da me e fosse imprevedibile, in quanto sono i soggetti che intervistiamo a decidere buona parte degli aspetti contestuali che possono altamente influenzare l’esito della conversazione, mi aveva destato un po’ di preoccupazione che è del tutto scomparsa quando ho avuto modo di constatare che il maestro Avella si era liberato da impegni per dedicarmi del tempo prezioso, tanto da accogliermi con immensa disponibilità nel suo mondo privato, caratterizzato da un tripudio di opere, libri, foto che facevano “respirare” fin dal primo impatto con esso arte, cultura, esperienza e dedizione.
Percepivo una certa contentezza ed emozione da parte del mio interlocutore nell’essere intervistato da una ragazza così giovane riguardo un argomento che gli stava particolarmente a cuore, ma che soprattutto non desta l’attenzione e la curiosità da parte dei miei coetanei.
Una volta accomodati, mi sono presentata e in primis l’ho ringraziato per l’opportunità che mi stava dando, poi, dovendo tenere conto della tutela della sua privacy, gli ho immediatamente chiesto se la nostra conversazione potesse essere registrata per essere materializzata in una documentazione quale il mio elaborato e se al suo interno ne potessi esplicitare l’identità.
Ricevuto il consenso, ho avviato il registratore del mio cellulare e gli ho spiegato in modo dettagliato il motivo della nostra intervista, il perché e in quale veste ero lì, le motivazioni e gli obiettivi della mia ricerca antropologica riguardo il processo di strutturazione e progettazione artistica degli obelischi della festa, il risultato del nostro scambio interculturale in vista di una condivisione e restituzione alla docente, a tutti i curiosi e amanti della Festa e a lui stesso.
La presentazione di tali aspetti è stata molto scrupolosa in quanto volevo che il maestro in primis avesse ben chiaro il mio ruolo in quel momento e il preciso oggetto della mia ricerca, da intendere come una sorta di bussola che guida la direzione della sua attenzione, per evitare enormi digressioni o eccessivi sviamenti di percorso dal focus prefissato. A tal proposito le domande che avevo precedentemente appuntato sono state di grande aiuto nell’orientamento del discorso che è stato fluido, privo di silenzi, intenso grazie anche al mio interlocutore che fin da subito ha creato una situazione conviviale e costruttiva, nonostante la sua autorevolezza che avrebbe potuto inibirmi.
Ho trovato giusto e doveroso indirizzare la mia intervista partendo dall’esplorazione della sfera personale e soggettiva del maestro sollecitandolo a parlarmi della sua esperienza e legame con la Festa, i contributi che da buon nolano ha apportato ad essa.
Esprimere il mio interesse dapprima verso il mio testimone anziché sul tema prescelto è stata una strategia efficace, per esprimere la considerazione che avessi di lui in quanto soggetto e non di un contenitore da cui prelevare le informazioni. Se fosse prevalsa quest’ultima il mio interlocutore si sarebbe potuto infastidire in quanto avrebbe percepito la relazione che si stava creando, strumentale e non fiduciaria e amicale.
Il maestro mi ha raccontato che il suo legame con la Festa come ogni nolano che si rispetti parte dal momento della propria nascita che già sancisce il nostro sconsiderato amore per questo bene immateriale, ma il suo rapporto diretto come artista con il rituale avviene nel 1971, quando fu maestro di festa per la prima volta del Giglio del Beccaio.
Per affermarsi come artista ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Napoli, nel 1964 e poi si è trasferito a Parigi dove ha fatto il suo dottorato, in seguito ad una borsa di studio del Governo francese dove segue i corsi d’incisione all’ Accademia Ecole des beaux-arts.
Quando è ritornato a Nola all’inizio degli anni 70, mi confida che aveva un obiettivo, ovvero provare a rinnovare un po’ la festa partendo dall’ unione tra l’artigianato e l’artista.
Le due figure la maggior parte delle volte si confondono in quanto l’artigianato si è sempre rifatto a degli stilemi che erano del mondo degli artisti, riproducendo una serie di visioni riprese proprio dall’arte, testimoniandone al contempo i riferimenti riguardo l’epoca a loro contemporanea e l’evoluzione rispetto a quelle precedenti; gli artisti invece, data la loro elevatissima maestria e manovalanza soprattutto nel corso del 400 e 500, erano considerati artigiani nelle botteghe.
Allora il maestro tenta di creare tra l’artista e l’artigiano un connubio che rappresenti una crescita per entrambi e soprattutto un miglioramento della qualità delle creazioni, soggetta a un forte declino che, con rare riprese, si è protratto sino ad oggi e continuerà anche in futuro se non si pone rimedio.
Tale declino è frutto di uno scadimento di tipo culturale e valoriale riguardo il rito, tanto da apportare cambiamenti radicali, oserei definire degenerativi, in molteplici aspetti di seguito riportati:
-la proposta e la scelta del rivestimento dei gigli viene affidata ai maestri di festa e non più agli artigiani e agli artisti, che hanno sempre meno possibilità di proporre i propri progetti perché sostituiti per esempio dai disegni dei figli di coloro che hanno ottenuto l’assegnazione, travisata in proprietà dell’obelisco a discapito dell’idea di una “Festa totalizzante”.
– la perdita della valenza simbolica del rituale e dei suoi emblemi, quali lo scambio della bandiera, la processione del Santo Paolino, i comitati e la libera e sentita partecipazione dei nolani animati dalla fede e dalla passione ora spesso soppiantati dalla competizione tra le paranze che hanno preso il sopravvento su tutti gli aspetti della Festa, come per esempio la musica, la struttura, il rivestimento, etc.
-da un punto di vista economico, strettamente legato a quello valoriale tanto da poter affermare che ne rappresenta una conseguenza, oggi i Gigli diventano sempre più leggeri, più piccoli, più pericolosi. Nel rivestimento viene utilizzato più frequentemente il polistirolo anziché la cartapesta per risparmiare in gran parte sia nel processo di creazione sia di costi della macchina a spalla.
Anche in passato spiega il maestro Avella, è stato impiegato questo tipo di materiale ma con un obiettivo puramente differente, funzionale come nel caso del giglio del 68 di Guido Ambrosino che rompe con la tradizione passata, usando per la prima volta il polistirolo per far apparire il giglio estremamente attuale e moderno.
Dopo che il maestro mi ha mostrato diversi rivestimenti degli obelischi attraverso una raccolta ricca di immagini, ho approfittato del momento per cominciare a scendere nel pieno dell’intervista ed esplorare a livello più tecnico l’evoluzione a cui la struttura e la progettazione degli obelischi è andata incontro.
Cerco di non interrompere in modo brusco la narrazione del maestro, aspettando pazientemente il momento più opportuno, costituito da una pausa per esempio, che portasse la comunicazione verso una direzione discendente che mi permettesse di condurre la sua attenzione sull’oggetto della ricerca attraverso una serie di domande puntuali, riguardanti l’evoluzione strutturale dell’obelisco e la sua conseguente influenza sull’evoluzione iconografica del rivestimento in cartapesta, dei motivi ricorrenti e stili prevalenti.
Le risposte esaustive che ho ottenuto dal maestro Avella in merito, implementate con la documentazione che ho prima, durante e dopo l’intervista, grazie anche alla lettura di un testo presente nella libreria di famiglia intitolato “Arte e tecnica nei Gigli di Nola, Forme ed espressioni dell’attività artigianale campana” di Alfonso Maria Russo, particolarmente illuminante e da cui ho preso ampio spunto, mi hanno permesso di apprendere e tracciare cronologicamente lo sviluppo della forma, in modo dinamico, del giglio.
4. Iter antropologico tra storia, arte, cultura ed evoluzione della progettazione artistica e realizzazione strutturale di un giglio, attraverso la testimonianza del maestro Vittorio Avella
Il nolano Ambrogio Leone nel suo libro, De Nola, del 1514, fa una prima descrizione del giglio considerato all’epoca “cereo” in quanto ai primordi della Festa questo appariva come una grandissima torcia a guisa di colonna accesa, poggiante su un cataletto che ne permettesse il trasporto da parte dei nolani, adorna di spighe di grano rimanda significativamente ai riti sacrali quali oggi la bandiera e la processione durante le quali i Nolani offrono i”fiori” (gigli) al santo protettore a testimonianza di devozione. Successivamente il Remondini in Della nolana ecclesiastica storia del 1757 quando descrive l’immagine della struttura votiva evidenzia una grande macchina o piramide, a forma di grosso globo, arrivando a denominarla “ maj”; per poi arrivare a Gregorovius che nella sua annotazione riportata in Passeggiate in Campania e in Puglia del 1853 parla di una “altissima torre” ,dell’altezza e grandezza più o meno uguale a quella di oggi, a sezione quadrangolare (a quattro facce).
Dalla fine del 600 ad oggi il giglio è ampiamente riconosciuto come macchina da festa sia per gli elementi tecnici, strutturali e decorativi ma in particolar modo per il suo significato allegorico che lo differenzia dagli altri rituali che si celebrano ancora oggi, immutati nel tempo, in alcuni paesi limitrofi, come Barra, Ponticelli, Brusciano, Crispano o dal versante est Avella, etc….
Questi riti arcaici sono propri di una cultura popolare legata all’ attività agricolo-artigianale-commerciale che ancor oggi caratterizza l’economia di Nola, città situata al centro dei collegamenti stradali fra il Nord e le coste ioniche e tirreniche e che proprio per questa collocazione ha nel tempo assimilato e trasmesso anche tradizioni culturali rituali e festive.
Significative sono state le considerazioni del professore Manganelli che ha svolto proprio una ricerca storico-scientifica sulla simbologia di riti pagani propiziatori.
Egli afferma che l’accostamento del giglio ai riti propiziatori per la prosperità e fertilità può essere considerato valido fino alla celebrazione dell’evento del 410 d.C., poiché da quel momento in poi “le macchine”, sono diventate simbolo di fede e di devozione.
Non a caso, come sottolinea il maestro Avella durante l’intervista, ciò che differenzia la nostra Festa dalle imitazioni limitrofe è la presenza della barca che rappresenta il mezzo con il quale il vescovo Paolino fece ritorno a Nola dalla prigionia, con tutti i prigionieri. Essa ha avuto un richiamo religioso e salvifico talmente forte da tramutare nel corso dei secoli l’accoglienza da parte dei nolani del Santo, attraverso la raccolta di fiori e grossi ceri portati lungo il percorso in una cerimonia di ringraziamento e benedizione.
A tal proposito i gigli divennero sempre più grandi ed ornati di fiori e trine, creando problemi per il difficile e faticoso trasporto in occasione della rituale processione. Allora si cominciarono a creare allestimenti strutturali rendendo così più agevole il trasporto: si cominciò con la sedia sulla quale il cero veniva legato, poi con il cataletto che si trasformò in una grossa base trasportata, con barre opportunamente sistemate, da portatori volontari, sulla quale veniva sistemato un castelletto in legno a forma di parallelepipedo entro il quale veniva sistemato il giglio.
Questa struttura, con il sovrapporsi di altri castelletti degradanti verso l’alto in altezza, diede origine ad una torre piramidale che raggiungeva l’altezza di 25 metri, identificabile nel giglio a “quattro facce”, caratteristico del secolo scorso.
La struttura lignea veniva eseguita dagli artigiani, maestri d’ascia, carpentieri e falegnami che apportavano di volta in volta le opportune modifiche migliorative, avvalendosi della loro sola pratica artigianale, in assenza di principi tecnici costruttivi a loro noti.
Una delle trasformazioni migliorative delle tecniche costruttive scaturita dalla riflessione che i costruttori nolani fecero nel ricercare una forma meno rigida e più flessibile al movimento dei cullatori è stata l’inserimento della “borda” un’asse centrale portante, alla quale sono collegati tutti gli elementi strutturali in una condizione di maggiore stabilità ed elasticità.
Molti pensano che la borda fosse stata introdotta nel 900 dal maestro carpentiere Filippo Cantalupo, ma il maestro Avella smentisce tale supposizione in quanto già verso la metà dell’Ottocento ne abbiamo i riferimenti attraverso Gregorovius che testimonia la compresenza delle torri e del giglio dalla schiena triangolare che ne permetteva il movimento, invenzione straordinaria che avviene solo a Nola. Al contempo il maestro Avella sottopone alla mia attenzione un esempio di trasformazione pericolosa per la nostra tradizione quale è stato l’Ortolano 2019 di Nunzio Meo, il primo giglio cilindrico. Il mio testimone ci ha tenuto particolarmente a evidenziare il concetto dannoso insito in questo tipo di obelisco, in quanto non rispetta i canoni della strutturazione e non ha nulla a che fare con la nostra tradizione.
Successivamente ho invitato il mio interlocutore a ripercorrere le fasi operative della progettazione e direzione artistica dell’allestimento strutturale e decorativo del giglio nelle botteghe artigiane nolane.
L’artista Vittorio Avella ci spiega che c’è stato sempre un senso decorativo della macchina anche prima che a Nola si sviluppasse la lavorazione della cartapesta. Attraverso rari disegni o racconti, frutto di una lunga tradizione orale, sappiamo che i primi rivestimenti dei gigli erano costituiti da stoffe, fiori, apparati lignei, pochissimi elementi scultorei perché si prediligeva la rappresentazione umana, solitamente interpretata dai bambini che si calavano nei panni degli angioletti. Questi spesso venivano legati saldamente alla struttura per evitare pericoli o situazioni inconvenienti.
A partire dall’800 con la scoperta della cartapesta da parte degli artigiani napoletani e le particolari modalità di trattamento di questo materiale tipiche dei cartapestai nolani, subentrano cambiamenti radicali nelle diverse fasi operative che portano alla realizzazione della “vesta nova”del giglio così come la vediamo oggi.
Dapprima si prepara un bozzetto di ciò che si vuole rappresentare sul rivestimento caratterizzato solitamente da motivi religiosi o laici, di stampo politico, sociale, che abbiano però una linea architettonica e stilemi tipici della tradizione barocca napoletana.
Poi visto che non è facile trasferire il significato contenutistico del monumento, dall’idea o rappresentazione pittorica alla realtà spaziale della composizione, vengono impiegate un gran numero di manovalanze come artigiani, falegnami, stuccatori, pittori, che lavorano tra loro in modo sinergico.
Segue la lavorazione della cartapesta: prima si preparano la colla ottenuta con farina ed acqua e si confezionano i fogli di giornali e di cartapesta che, impregnati di colla, vanno a coprire lo scheletro dei pezzi per ricavare dal calco in gesso i vari motivi ornamentali e decorativi (statue, bassorilievi,..). In seguito si imposta il disegno geometrico delle centine dei pezzi del giglio su fogli di compensato, in misura reale, rapportati sia alla struttura dei singoli telai che a quella complessiva del giglio. Le centine, unite fra loro con sottili listelli di legno di abete, formano lo scheletro del pezzo sul quale si costruiscono le colonne, i capitelli, le trabeazioni, le nicchie e le volute.
Terminati gli scheletri si controlla il perfetto allineamento dei singoli pezzi una volta disposti a terra, incastrati l’uno nell’altro, in perfetta perpendicolarità fra loro e progressivamente dal primo al sesto pezzo, in modo che dall’alto si potesse verificare il perfetto sviluppo architettonico e correggere, eventualmente, i difetti esistenti.
Fatto ciò iniziava l’esecuzione dei motivi figurativi e ornamentali costituenti nell’insieme il soggetto compositivo del giglio. Le statue, i puttini, i festoni, le volute, i capitelli, le modanature, eccetera, venivano modellati nelle dovute dimensioni e proporzionati alla composizione di ogni singolo pezzo, con argilla allo stato pastoso-plastico, disposto su piani di legno.
Terminata l’esecuzione del modello, si procedeva alla realizzazione del calco in gesso e dopo un lento e naturale essiccamento, veniva tolta l’argilla che nel frattempo si era staccata naturalmente dal calco. Realizzati i calchi negativi (dei modelli di argilla) si procedeva alla realizzazione dei positivi con la cartapesta per poi passare alla loro colorazione tramite coloranti e smalti particolari.
Non mi aspettavo che il rivestimento decorativo del giglio fosse soggetto a un processo così tortuoso e lungo, tanto che la mia curiosità mi ha portato a chiedere al maestro Avella, esperto del settore, quanto costasse un obelisco completo di elementi strutturali e decorativi di un certo livello.
Lui di pronta risposta:” Oggi un giglio costerebbe sui 20 mila euro se venisse realizzato dalle manovalanze dell’epoca, che avevano una capacità artigianale altissima…a differenza degli artigiani e artisti odierni che per accaparrarsi la fabbricazione di un obelisco chiedono molto meno, con 4000/5000 € tu hai tutto, struttura e rivestimento. Allora già capisci con quella cifra che tipo di qualità puoi pretendere …”.
Ho percepito una grande delusione da parte dell’artista riguarda la dimenticanza e sottovalutazione, in primis della comunità nolana, verso le attività artigianali che oggi vivono una condizione di stasi, nonché di disgregazione. A tal proposito numerosi sono stati i tentativi promossi dallo stesso Vittorio Avella riguardo la ripromozione di questa categoria, attraverso un progetto che ponesse fine a questa “guerra dei poveri” attuando una politica di aggregazione dei pochi artigiani e artisti che oggi continuano a realizzare gli obelischi e si impegnano a tramandare questa arte unica.
Un esempio significativo è stata l’associazione dei cartapestai nolani negli anni 2000, di cui lui stesso era il presidente e che in un’ottica di cooperazione avrebbe contribuito alla realizzazione del Museo della cartapesta, un museo non da intendere nel senso classico del termine, ma come luogo in cui i turisti di passaggio, non solo potessero ammirare foto e manufatti inerenti la Festa, potessero assistere dal vivo alla creazione degli obelischi, osservando il lavoro di gruppo di professionisti e non, in modo da poter respirare una parte dell’essenza e delle emozioni collegate al nostro rituale.
Purtroppo il progetto non si è mai concluso nella sua realizzazione a causa del dispendio di soldi da parte dell’amministrazione comunale.
Conclusione
Ritengo inutile indulgere in ulteriori dilungazioni in quanto penso di aver adempito ampiamente agli obiettivi prefissatami dall’inizio della mia intervista.
Con l’augurio che questo mio lavoro possa far affiorare a coloro che lo leggeranno la stessa curiosità, passione e devozione che ho impiegato io durante tutta la sua realizzazione, concludo citando un messaggio di Mimmo Paladino durante un suo discorso pubblico, che mi ha particolarmente colpito e spero possa imprimersi nei cuori e nelle menti delle generazioni presenti e prossime: “La cultura significa il passaggio dal poco al molto, dall’umile all’importante, da ciò che non serve a nulla a qualche cosa che serve a tutti. Perciò essa coinvolge il lavoro d’ognuno, l’entusiasmo diffuso. Non importa tanto il successo clamoroso quanto effimero di piazza, ma la finalmente iniziata rottura di pigrizie e isolamenti consolidati. La cultura è inventare parole e gesti nuovi, soprattutto modi nuovi di costruttiva comunicazione con gli altri e di ricerca del senso forte del nostro vivere. La cultura autentica non è stanca ripetizione, un adagiarsi sul passato. E piuttosto coraggio di affrontare il nuovo, e costruire qualcosa che riempia il futuro destinato altrimenti a restare vuoto.”
di Martina Della Pietra (Studentessa di scienze e tecniche del servizio sociale,facoltà di SCIENZE POLITICHE, SOCIOLOGIA, COMUNICAZIONE presso l’università Sapienza di Roma)