Ancora scintille tra il Pd e il M5S sulle riforme

Previsto, paventato, sperato, invocato, per non dire annunciato, l’incontro tra Pd e M5S è saltato. Lo ha anticipato in poche parole Alessandra Moretti, spiccia e diretta: «Non c’è nessun incontro, vado a Bruxelles». Lo ha spiegato in maniera più formale Roberto Speranza, il capogruppo dem, con tanto di lettera a Laura Boldrini: «Riteniamo il confronto importante, ma proprio per questo lo faremo solo dopo che il M5S avrà risposto per iscritto alle nostre dieci domande». «Verba volant, scripta manent», ripetevano all’unisono i deputati pd per un giorno tutti seguaci di Cicerone.
 
Ma in serata arriva la sorpresa, il contrordine: i cinquestelle rendono pubblica la loro, di lettera, in risposta a quella di Renzi, dieci punti grillini che sono in apparenza altrettanti «sì» ai punti renziani. Dei sì con riserva, dei sì però, ma tant’è: quanto basta a far dire ai piani alti del Nazareno che «a questo punto, avendo loro fatto quanto gli avevamo chiesto, l’incontro si può fare di nuovo». Quando non si sa, ma Pd e M5S dovrebbero tornare a sedersi attorno a un tavolo. Su tutti incombe l’inquilino del Colle, che ancora ieri da Gorizia è tornato a premere sui partiti impegnati sulle nuove regole per chiedere «un confronto sulle riforme che non sia inconcludente», e per auspicare «il superamento del bicameralismo paritario».
 
Perché una lettera proprio al presidente della Camera, per disdire l’appuntamento? Raccontano che Matteo Renzi sia stato indeciso fino all’ultimo se accedere al secondo incontro o meno, abbia chiesto consiglio, si sia consultato, abbia valutato i pro e i contro; ma quando dalle parti del Pd hanno visto che Luigi Di Maio, il capo delegazione cinquestelle nonché vice presidente della Camera, aveva fissato unilateralmente l’incontro con tanto di comunicato «alle ore 15, sala del Cavaliere», si sono sciolti dubbi e perplessità. «Qui c’è aria di trabocchetto», e parte la lettera a Boldrini. Il timore era che i cinquestelle inscenassero uno show in streaming magari con sedie vuote a indicare i dem assenti, o altre pensate da politica spettacolo, e si è pensato bene di porre un altolà, di evitare l’imboscata.
 
Tanto più che ci ha pensato Beppe Grillo a dar fuoco alle polveri, mettendosi subito a inveire contro quegli «sbruffoni del Pd» in preda a manie «da dittatori». E annunciava «una opposizione ancora più dura di prima». Si faceva sentire poco dopo Renzi via twitter: «Io sono un ebetino, dice Beppe, ma almeno voi avete capito quali sono gli otto punti su cui M5S è pronto a votare con noi?». Di Maio convocava a stretto giro una conferenza stampa, si lamentava, denunciava il mancato appuntamento, e prometteva: «Il Pd è inaffidabile, d’ora in poi parleremo solo con Renzi». Parole che stridevano con le ancora fresche invettive del comico, facendo emergere una vistosa differenza di valutazioni dentro il M5S, al punto che Grillo doveva azionare il freno a mano: «Le porte per una discussione sulla legge elettorale sono sempre aperte, il M5S come seconda forza ha il dovere di migliorare la legge elettorale e lo farà». Posizioni non proprio collimanti, al punto che le stesse agenzie di stampa hanno ipotizzato, se non dato conto, di nervosismi e tensioni tra Di Maio e Grillo. Poi è arrivata la lettera dei ”dieci sì, però”, e la partita è ripresa. Si va ai supplementari.
 
E il fronte del Senato? Frondisti e dissidenti di Pd e FI avrebbero raggiunto insieme la ragguardevole quota di 40, ma Renzi con i suoi si è mostrato fiducioso e ha spiegato: l’accordo tiene, i numeri ci sono, si va avanti. La fronda Min-Min, come è stata ribattezzata dal nome dei due animatori, Mineo e Minzolini, promette di non demordere, ma sia Renzi che Berlusconi sembrano snobbarli: il primo non ha neanche partecipato alla riunione dei senatori, il secondo sta procedendo al convincimento operoso uno per uno, e non farà più un’altra assemblea con i senatori.

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