Renzi avverte: “Riforme subito o mi dimetto”
«Non è vero che si dimette Maria Elena, lo faccio io». Il messaggio arriva forte e chiaro nel tardo pomeriggio di ieri. Matteo Renzi non intende mollare la presa e pretende che la Commissione Affari Costituzionali del Senato voti il testo base delle riforme istituzionali messo a punto dal ministro Maria Elena Boschi e che anche Forza Italia mantenga gli impegni assunti.
«Molto bene, non era facile la palude non ci blocca», twitta il premier a tarda sera contento di averla spuntata, malgrado le contorsioni del civatiano Mineo, che non vota, e l’odg di Calderoli che passa grazie ai voti dell’ex forzista ed ex ministro montiano, Mario Mauro, «ancora deluso per non esser ministro», raccontano a palazzo Chigi. Si riallinea anche FI, che alla fine vota il testo base, grazie alla telefonata che Renzi fa a Berlusconi. «Pensavano di farcela con un’imboscata rosolandoci, rinviando. Mentre siamo andati al diritto, come si dice dalle mie parti», sostiene Renzi in serata sfogandosi con i suoi. «Il risultato che l’accozzaglia ha ottenuto è un ordine del giorno che vale zero. Riforme 1 palude 0», sostiene soddisfatto il presidente del Consiglio.
POLTRONISTI
La tensione nella maggioranza è stata però fortissima per tutta la giornata. Nel pomeriggio partono da palazzo Chigi telefonate di fuoco nei confronti degli esponenti dei partiti, che pur stando al governo, fanno melina o si oppongono apertamente alla mediazione raggiunta la sera prima. Ovvero votare con i numeri della maggioranza il testo base e, insieme a Forza Italia, l’ordine del giorno che contiene le linee delle possibili modifiche al testo. Oltre il partito azzurro non vorrebbe andare, a pochi giorni dalle elezioni europee, ma Renzi non sente ragioni e chiede al Cavaliere il rispetto del patto del Nazareno e di votare il testo base. Sotto il fuoco del premier finisce subito il capogruppo dei Popolari per l’Italia Mario Mauro in prima Commissione, e il senatore Corradino Mineo, esponente civatiano e teorico della «fiducia a tempo» data pochi mesi fa all’attuale governo. Proprio per verificare se «il tempo» fosse più o meno scaduto, Renzi usa la mano pesante facendo sapere che un eventuale stop in Commissione sarebbe stato «un segnale molto negativo tale da impormi una verifica con il Capo dello Stato». Fallisce il tentativo di far dimettere Mauro dalla Commissione attuato dai senatori del suo partito in un’infuocata assemblea, e rientra solo in parte il dissenso di Mineo. Resta la minaccia del premier insieme al ”no” affidato al ministro Boschi alla mediazione che il senatore leghista Calderoli aveva proposto alla presidente Finocchiaro. Il tentativo del leghista di coalizzare gli scontenti del Senato non più elettivo, aveva infatti trovato spazio anche tra molti senatori della maggioranza e di Forza Italia ai quali da ieri Renzi ha però posto un quesito che resterà in piedi sino alla fine del lungo percorso di approvazione delle riforme. Ovvero scegliere tra la possibilità di restare a palazzo Madama per altri tre anni, o lasciare il seggio in autunno per affrontare nuove elezioni. La carta del «così salta tutto» produce l’immediata presa di posizione, a favore del testo del governo, del capogruppo si Scelta Civica Gianluca Susta, mentre per convincere l’ex ministro Mauro deve scendere in pista il sottosegretario Delrio ma l’ex di Forza Italia è restato sino all’ultimo convinto di poter votare sia l’ordine del giorno presentato da Calderoli (che passa e prevede un Senato elettivo), sia il testo base che parla di Senato non elettivo.
CAMBIAMENTI
Resta il fatto che conta il testo base, ma il nodo dell’elettività dei senatori resta politicamente irrisolto e destinato ad essere argomento di scontro in aula. Renzi è però convinto, come Luca Lotti, che Berlusconi non si tirerà indietro dall’accordo ribadito nella cena di venti giorni fa a palazzo Chigi. D’altra parte, come è evidente da ciò che è accaduto ieri a palazzo Madama, senza l’appoggio di Forza Italia la maggioranza non ha la necessaria compattezza per votare le riforme. Renzi è pronto a discutere su tutto ma non può però permettersi di fare passi indietro sulla non elettività di palazzo Madama nè ora, nè dopo le elezioni Europee ed è convinto che l’intesa reggerà e che il ruolo da «padre costituente» sia l’unico che possa permettere al Cavaliere di ritagliarsi una sua nuova legittimazione e di evitare il rischio di elezioni anticipate.