Un anno fa morte Andreotti, in 6 lettere l’autodifesa

Divo o Belzebù? A un anno dalla sua morte (il 6 maggio del 2013 a 94 anni) il tempo non ha ancora messo d’accordo chi rimpiange la sottigliezza e l’arte politica di Andreotti, che ne hanno fatto uno dei protagonisti dell’Italia del dopoguerra, e chi invece vede in lui l’archetipo del politico pronto a tutto pur di conservare il potere.

    Da enfant prodige a grande vecchio della politica italiana, Andreotti ha attraversato lo scorso secolo guidando il Paese in collaborazione-competizione con gli altri grandi leader della Dc : Moro, Fanfani, De Mita, Forlani. Un periodo lungo settant’anni, in cui l’ex braccio destro di De Gasperi ha costruito il suo mito di politico accorto, tessitore di alleanze, grande conoscitore della macchina dello Stato, con ottime entrature in Vaticano ma capace all’occorrenza di governare anche insieme al Pci.

    Ad arricchire la problematica figura del leader democristiano arrivano ora sei lettere inedite, delle quali il quotidiano Avvenire ha pubblicato alcuni estratti, scritte da Andreotti alla sua famiglia negli anni dal 1978 al 2005 con l’indicazione di aprirle solo dopo la sua scomparsa. Le lettere rendono testimonianza del timore che Andreotti aveva di essere ricordato come un politico cinico e senza scrupoli. Nella lettera del 1978, scritta nei giorni in cui Aldo Moro era prigioniero delle brigate rosse, Andreotti definisce così la filosofia che ha guidato la sua azione: “Nella politica mi sono sempre ispirato alla difesa dei più deboli, nutrendo una personale allergia per ogni forma demagogica”. E aggiungeva: “Spero di non lasciare dietro di me rancori od equivoci”. Qualche anno più tardi, nel 1999, ammetteva qualche peccatuccio, ma poca roba: “Nell’azione politica qualche sgambetto l’ho fatto e non ho frenato la mia ambizione. Se a qualcuno ho arrecato ingiuste amarezze chiedo indulgenza”. Ma da queste lettere emerge che era Andreotti a sentirsi vittima. Gli pesava il rimprovero di non aver fatto il possibile per salvare Aldo Moro. E gli pesava, ovviamente, l’accusa di essere sceso a patti con la mafia. La traccia del malessere che queste accuse avevano avuto su di lui, viene fuori dalla lettera del 25 settembre 1995 scritta prima di partire per Palermo, dove si celebrava la prima udienza del processo che lo vedeva accusato di associazione mafiosa.

 Dopo aver giurato “davanti a Dio” di non aver avuto nulla a che fare con la mafia “se non per combatterla con le leggi e gli atti pubblici”, Andreotti riavvolgeva il nastro della sua vita di diciassette anni e tornava al rapimento Moro. “Mi offende particolarmente l’insinuazione che non sia stato fatto tutto il possibile per salvare Moro”. Sempre da quelle lettere emerge un’altra circostanza che non era mai venuta allo scoperto. Andreotti, chiamato a difendersi dall’accusa di collusione con la mafia, aveva messo in conto la possibilità di essere ucciso. Nella lettera del ’95 Andreotti scriveva di non avere idea sul perché fosse nata “l’infame iniziativa” della storia del bacio con Riina e aggiungeva: “Il tempo e i giudici lo dovranno acclarare. Se per il lungo decorso delle procedure o per la realizzazione di un attentato che è da tempo nell’aria io non arrivassi vivo alla verità spero che si trovi comunque un modo per renderla palese”.

    Emerge dalle lettere anche lo sforzo di Andreotti di dare un senso alle accuse di mafia che gli piovvero addosso nel 1993. Da buon cristiano lo trova nella giustizia divina: “Nella mia vita – scriveva ai suoi nel 2005 – ho avuto tanto: incarichi onori, fiducia, riconoscimenti accademici . Che potevo offrire in cambio alla provvidenza divina? Forse questi anni di sofferenze e di calunnie servono per bilanciare un corso di vita tutto favorevole”.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *