Renzi annuncia la riforma del lavoro e sfida Grillo

Quindici mesi di «patto» col governo, quindi anni di «patto» con gli italiani. Comincia da qui la (difficile) avventura di Matteo Renzi alla guida del PartitoDemocratico. Lui prova a caricarla di entusiasmo mettendo sotto il tappeto gli strascichi livorosi lasciati dalle primarie. C’è altro a cui pensare. C’è, soprattutto, Grillo da sfidare con le elezioni Europee alle viste, lanciando uno slogan-hashtag pronto per essere twittato: «#Beppefirmaqui: noi rinunciamo ai rimborsi, ma tu fai con noi legge elettorale e riforme istituzionali».

GIOVANI E FACCE NUOVE
L’Assemblea del Pd comincia coi numeri ufficiali. Due milioni e 800 mila voti ai gazebo, a Renzi il 67 per cento. E si vede dalle mille facce che riempiono il salone della Fiera di Milano. Facce nuove, per lo più sconosciute, per lo più giovani. «Il voto delle primarie ci chiede una possibilità di cambiamento senza se e senza ma» dice. In prima fila c’è Enrico Letta, in maglione, come chi si sente a casa propria.

Il capo del partito e il capo del governo paiono in sintonia. Civati conferma: «Enrico e Matteo sono più vicini di quanto crediate». Letta ribadisce: «Uniti non ci batte nessuno». Così, quando il segretario detta la sua agenda al governo non crea turbamenti al premier che lo ascolta: «Se alle Europee avremo risultati balbettanti» dice Renzi «non potremo dare la colpa a Berlusconi o a Grillo, la colpa sarà nostra».

Eccola, dunque, l’agenda. Il lavoro al primo posto: «Dobbiamo tornare a essere il partito del lavoro. In un mese presenteremo un disegno di legge che semplifichi regole e procedure per le aziende e che garantisca un sussidio a tutti quelli che hanno perso il posto». C’è anche altro: la modifica della Bossi-Fini e il riconoscimento dello «ius soli»; la scuola «da far ripartire e da valorizzare»; e le unioni civili: «Tema delicato, ma parleremo chiaro agli alleati di governo».

Tutto da fare in fretta. Perché quello che più preme a Renzi è dimostrare che il Pd, sotto la sua guida, è capace dicambiare marcia, di archiviare incertezze e tentennamenti, di «fare un riforma per trasformare il Senato in una camera delle autonomie, senza eletti né stipendi», di presentare una legge elettorale «che garantisca stabilità», di abolire le Province e dimezzare le indennità dei consiglieri regionali. Che Grillo lo sappia: «Noi siamo pronti. E tu? Se ti tiri indietro vuol dire che sei solo un chiacchierone, e che il buffone sei tu».

La sfida è lanciata. E subito respinta: «Avevi annunciato una sorpresina» manda a dire il comico «Invece è solo una scoreggina. Andiamo al voto subito col Mattarellum, lanuova legge elettorale la faremo poi». Renzi se la ride, convinto di poter mettere i Cinque Stelle nell’angolo. Pur sapendo che – e lo ammette – ha bisogno del consenso del partito. Di tutto il partito.

Per questo lo sconfitto Cuperlo viene nominato presidente dell’assemblea. Un segno di pacificazione che viene contraccambiato: «Matteo ha fatto una buona relazione». Certo, c’è ancora la parola rottamazione a rendere indigesto a molti il nuovo corso. Renzi prova a raffreddare i rancori: «Noi possiamo difendere la nostra storia solo se siamo in grado di cambiarla. Altrimenti la nostra storia finisce nel museo delle cere».

 

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