Fumata nera per Prodi e Bersani si dimette

Nulla di fatto anche al quarto scrutinio: Romano Prodi non ce la fa, per lui 395 voti, molto al di sotto del quorum richiesto di 504 per l’elezione. 213 voti a Stefano Rodotà, 78 ad Anna Maria Cancellieri. Pd sotto shock, la Bindi si dimette da presidente dell’Assemblea

Romano Prodi non raggiunge il quorum per l’elezione al colle. Ha ricevuto alla quarta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica 395 voti, molto al di sotto del quorum richiesto di 504. I voti del centrosinistra sommati sono di 498 anche in considerazione del fatto che i presidenti di Camera e Senato non votano. 78 preferenze sono andate a Anna Maria Cancellieri, 213 a Stefano Rodotà e 15 a Massimo D’Alema. Hanno poi ottenuto voti anche Giorgio Napolitano e Franco Marini, che si sono fermati a quota 3. Le schede bianche sono state 15, le disperse 7 e le nulle 4.


Un centinaio di franchi tiratori affondano la candidatura di Romano Prodi (che si ritira dalla competizione) decisa con tanto di standing ovation dai grandi elettori del Pd. Il professore bolognese, si ferma a quota 395, ben al di sotto del quorum nonostante sia sceso alla quarta votazione a 504 preferenze; e dei voti di cui, sulla carta, godeva visto che dovevano essere poco meno di 500. Numeri che scatenano l’entusiasmo del Pdl di Silvio Berlusconi, che accusa il Pd di aver «violato i patti» e annuncia «lotta dura». Il candidato Cinque Stelle, Stefano Rodotà, incassa 213 voti, leggermente sotto gli scrutini precedenti a causa dei voti di Sel, andati all’ex presidente della Commissione Ue. Ma molti di più rispetto ai 163 del Movimento 5 stelle che lo sponsorizza.    

Prende invece una manciata di preferenze in più del previsto il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, arrivata a quota 78 e dunque dieci preferenze sopra gli elettori di Scelta Civica, il partito di Mario Monti che l’ha lanciata. Massimo D’Alema incassa 15 schede, accolte in Aula con l’applauso del Pdl, convinto che sia stato proprio l’ex premier ad affossare il rivale Prodi. Il voto rappresenta un nuovo, durissimo schiaffo a Pier Luigi Bersani, che visto il risultato difficilmente non potrà prendere atto di ciò che Matteo Renzi dice pubblicamente: «La candidatura di Prodi non c’è più». A pochi minuti dallo scrutinio, inoltre, già si parla di dimissioni del segretario democrat. Tanto che lo staff è costretto a smentire. A largo del Nazareno è il caos. Ci si accusa reciprocamente: c’è chi punta il dito contro i “popolari” accusati di aver vendicato Marini; e c’è chi accusa i dalemiani. Veleni giustificati dall’escamotage di Nichi Vendola che assicura: i voti di Sel erano riconoscibili grazie all’escamotage di far scrivere sulla scheda “R. Prodi”. Il partito però ha poco tempo per le lotte intestine: domani alle dieci partirà la chiama per la quinta votazione. E deve trovare una strategia per evitare che le ironie del Pdl (i loro candidati «sembrano i dieci piccoli indiani») si trasformino in realtà. Bersani è al bivio: Sel gli chiede di convergere su Rodotà, che per Beppe Grillo è e resterà il candidato dei Cinque Stelle. Parole che, nonostante la disponibilità dello stesso costituzionalista a farsi da parte per favorire altre soluzioni, hanno fatto tramontare le labili speranze di quei democrat che speravano di convincere i Cinque Stelle. Anche Monti si appella al Pd, ma per chiedergli di convergere sulla candidatura Cancellieri, di tornare cioè allo schema di un nome condiviso con il Pdl. I berlusconiani stanno alla finestra, soddisfatti per la strategia di uscire dall’Aula, insieme alla Lega, per costringere i montiani a contarsi e mostrare le divisioni del Pd. Berlusconi ha gioco facile nel gridare al tradimento da parte di Bersani e ad alzare i toni. Ma dietro le quinte gli ambasciatori del Pdl fanno sapere di essere disponibili a ragionare su una rosa di nomi: D’Alema, Amato, Cancellieri e Severino.     

E così gli occhi di tutti tornano sul Pd. Il partito è sotto schock. È un tutto contro tutti dove l’unico elemento comune sembra essere lo scontento verso la gestione della vicenda da parte dei vertici del partito, con Rosy Bindi che annuncia le sue dimissioni da presidente del partito. Dopo il quarto voto Bersani convoca un gabinetto di guerra con i ‘big’, Franceschini, Letta, Zanda. A dare l’idea del clima che si respira ci pensa Anna Finocchiaro che lapidaria sussurra una sola parola: «Sconforto». «A Prodi tutti hanno detto sì, hanno fatto l’applausone, poi hanno fatto il contrario, il giochino dei franchi tiratori che non è una battaglia a viso aperto», getta benzina sul fuoco Renzi. A questo punto nessuno sa come Bersani potrà uscire dall’impasse di un partito che ad ogni votazione, soprattutto sui propri candidati, nel segreto dell’urna si spacca.

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