Scontro in atto nel Pd sulla riforma del lavoro
Scontro nel Pd tra il premier Matteo Renzi e la sinistra del partito, che oggi si riunirà per scrivere gli emendamenti alla legge delega sul lavoro, il cosiddetto jobs act.
La minoranza dunque sfida il premier ed è pronta a a dare battaglia fino in fondo per correggere il Jobs act: la delega del governo così com’è non è votabile, spiegano i componenti della sinistra del partito. Tanto che Pier Luigi Bersani arriva a ventilare la «libertà di voto» in Parlamento e aggiunge rivolto a Renzi: «Ci rispetti come fa con Berlusconi».
«Con me cascano male», ripete però il premier perché non ci siano dubbi: si va avanti sulla strada tracciata dal governo con il Jobs act. «L’Italia – aggiunge – deve cambiare», a partire dal mondo del lavoro. E non hanno ragione d’essere gli allarmi e le proteste, perché «nessuno vuole togliere diritti ma darli a chi non li ha avuti» finora. Parole che la minoranza Pd e la Cgil leggono come «ideologiche» e «strumentali» ad alimentare lo scontro, senza entrare nel merito delle modifiche invocate alla delega sul lavoro.
«Sono anni che continuiamo a cambiare il governo ma non le cose», dice il premier in un’intervista al Tg2. E sottolinea che è essenziale riformare un sistema del lavoro dove ci sono cittadini di «serie A e serie B». Così come modificare la Costituzione per rinnovare le istituzioni non vuol dire «attentare alla democrazia», allo stesso modo intervenire sullo Statuto non vuol dire attentare ai diritti dei lavoratori, scandisce Renzi. Che punta a «nuove regole semplici per gli imprenditori e in grado di garantire chi perde il posto».
«Nel mio partito c’è chi pensa» che dopo il 40,8% alle europee «si possa far finta che non è cambiato niente con l’idea che “si mette lì Renzi a far la foglia di fico, tanto poi continuiamo noi a governare”». Ma «sono cascati male», avverte il segretario-premier. Valeva a luglio per le riforme, vale adesso per il lavoro, così come varrà per l’intero percorso dei Mille giorni. Non si accettano fronde: lunedì 29 Renzi indicherà la linea sul lavoro e dopo il voto della direzione tutti dovranno adeguarsi. Renzi fisserà i contenuti della riforma e chiederà al suo partito il mandato a portarla avanti attraverso la delega e i decreti delegati o, se risulterà impossibile la prima lettura entro il vertice europeo dell’8 ottobre, con un decreto
Il premier spiega di non voler tradire il mandato ricevuto dagli elettori alle europee: è un mandato per il «cambiamento», da portare avanti a dispetto della «vecchia guardia». Ma è proprio questo l’argomento che più di tutti irrita la minoranza Pd. «Con la mia storia conservatore non me lo dice», scandisce Bersani al Tg1. Poi sibila: «Vecchia guardia posso accettarlo, ma più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini chi c’è? Vedo che loro sono trattati con educazione e rispetto, spero che prima o poi capiti anche a me».
L’attenzione e la considerazione che il premier ha mostrato verso l’altro contraente del patto del Nazareno, notano gli esponenti della sinistra dem, appare maggiore di quella che rivolge al suo stesso partito. Con il rischio di scivolare, accusa da giorni Stefano Fassina, verso una politica sul lavoro che sa di «destra». E anche un trentenne, non iscrivibile alla «vecchia guardia», come Roberto Speranza, avverte Renzi che «proprio per restare al 40% ci vogliono alcune modifiche al Jobs Act».
Domani pomeriggio i bersaniani di Area riformista si vedranno al Senato con cuperliani, civatiani e chitiani per scrivere insieme gli emendamenti alla delega sul lavoro. Martedì mattina alla Camera Area riformista, che si rivedrà la sera per discutere anche di legge di stabilità, proverà a tirare le fila nella minoranza dem, in una riunione cui sono invitati anche bindiani e lettiani. La battaglia, assicurano i protagonisti, è appena all’inizio. Venerdì poi si incontreranno i segretari di Cgil, Cisl e Uil, per provare a concordare un percorso unitario di mobilitazione.
Il confronto deve essere nel merito della riforma, spiegano. E se Renzi lo rifiuterà si potrebbe anche arrivare alle estreme conseguenze di non votare il provvedimento. «Così come c’è stata libertà di
voto sul Senato, credo che ci sia anche su un tema delicato come il lavoro», dice Bersani. Ma spiega che non è questo il tema al momento: «Io sono fiducioso che al di là delle asprezze, si trovi un punto
di convergenza ed equilibrio».
I renziani, però, sono già in allerta: «La libertà di voto – dicono i deputati Bonaccorsi, Gelli e Magorno – sarebbe un attacco al partito. Una volta che viene indicata una strada, tutto il partito ha il dovere di seguirla», così come la minoranza renziana seguì la via del no alla mozione Giachetti sul Mattarellum, quando i bersaniani erano ancora maggioranza.
Non ha ceduto di fronte ai «frenatori» della riforma del Senato insomma e non cederà di fronte ai «frenatori» del Jobs act. Questo comunque il messaggio del premier, che da Palazzo Chigi gestisce direttamente il dossier lavoro.
Se il premier è stato ben chiaro che dalla traccia indicata non sono ammesse deviazioni, i sindacati e la minoranza dem sperano di incidere su aspetti concreti non ancora definiti nella delega, a partire dall’art. 18.
«In tutta Europa esiste il concetto di reintegra: semplifichiamo, ma deve rimanere», insiste Bersani. E Gianni Cuperlo: «Non accettiamo una discussione strumentalizzata per dividere il Pd tra innovatori e conservatori o minacciare decreti». Basta «provocazioni e ultimatum», si deve parlare di merito senza «propaganda».